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04 giu 2025

La figura grottesca del leccaculo

di Luciano Caveri

Ho già raccontato nel passato, ma si tratta di una personalità sempreverde che attraverso le epoche.

La tocco piano con una visione artistica. Andate a vedere, nelle mensole lignee intagliate, nel salone principale del restaurato da poco castello Sarriod de La Tour, la figura grottesca del "leccaculo”.

Lo si vede nella scomoda posa "fai da te" e ciò fa riflettere. Questa statuetta quattrocentesca dimostra, infatti, come il "leccaculo" - adulatore per eccellenza - sia alla fine un uomo solo, vittima di una sorta di strampalato onanismo, che si appoggia al potente di turno per farsi più forte nella sua pusillanimità e spesso precipita con lui, se non cambia in tempo cavallo.

Capisco che il termine non è politicamente corretto, ma siamo in un tempo in cui il linguaggio anche nelle aule parlamentari sembra essere in Italia piombato in una logica da “rompete le righe".

Forse è meglio addolcire con un altro termine: suggerirei "lacchè", che era il servitore che - poveretto! - precedeva a piedi la carrozza del proprio padrone.

Vi segnalo, per completezza, che una sentenza di Cassazione del 2007 non consente tuttavia di usare questo termine che, dicono i giudici, trascende dal diritto di critica per diventare offesa, figurarsi dunque "leccaculo". Quali alternative?

"Schiavo" è oggettivamente deprecabile nell'uso, anche se il termine veneto "sciavo suo" aveva una sua dolcezza e lo stesso vale, direi, per il termine desueto di "servo", forse allora si può salvare un suo derivato "maggiordomo" ("maior domus", il servo maggiore della casa), che non ha asprezze offensive.

Ho un libro da non perdere di qualche anno fa, che ci illumina su quello straordinario personaggio, che ciascuno di noi conosce fin dall'infanzia e che spesso vediamo o sopportiamo nella vita quotidiana.

Il titolo è illuminante: "Breve trattato sul lecchino" di Antimo Cesaro, che ha usato un modo elegante nella definizione…linguistiche.

"Lecchino" è, infatti, il modo gentile e ironico del già citato "leccaculo", idealtipo che lotta e vive in mezzo a noi, e va ringraziato l'autore perché non spara nel mucchio ma ci fornisce grandi proiettori con cui fare luce sulle nostre conoscenze del genere.

L’autore è Antimo Cesaro (Napoli, 1968), che insegna Scienza e filosofia politica e Teoria del linguaggio politico presso l'Università della Campania "Luigi Vanvitelli". E' stato membro del "Consiglio nazionale dei Beni culturali", deputato e sottosegretario di Stato al Ministero dei Beni e delle Attività culturali.

In questa attività politica, com'è capitato a me, avrà incontrato varianti meravigliose del modello standard del "leccaculo". Io ne conosco parecchie qanche nel campionario valdostano (in patois suona "lètsacu").

C'è una citazione straordinaria per la sua forza descrittiva che Cesaro ricorda ed è dello scrittore austriaco Robert Musil: «In sei giorni Dio creò il cielo e la terra. Nel settimo non creò proprio nulla. Si limitò a compiacersi di quanto aveva già fatto.

Eppure anche quel giorno ebbe origine un'altra creatura. Il lecchino. Ebbe origine dall'autocompiacimento. "L'Altissimo Signore voglia considerare - se posso permettermi di sottoporre la cosa alla Sua altissima attenzione - che io in realtà non ho consistenza", esordì il lecchino, e il Signore nella Sua infinita benignità considerò».

Aggiunge Cesaro: «Ovviamente, non ho dubbi - ma è una mia personalissima ipotesi - sul fatto che l'ottavo giorno il lecchino sia diventato ministro plenipotenziario di Dio... Sembrerebbe emergere, a questo punto, la vetustà di un'arte, talmente risalente da porre in dubbio la certezza su quale sia il più antico mestiere del mondo. E lo scarto tra meretricio e lecchinaggio è non solo temporale, ma anche qualitativo: infatti ci sono cose che una prostituta non fa».

Irresistibili i paralleli fra leccaculo ed animali ed i sarcastici e colti giri attorno al verbo "leccare" fino all'acme: «Infine, nel suo significato estensivo e relazionale - e qui, caro lettore, vengo al "dunque" - leccare può significare adulare in modo basso e servile. In quest'ottica, la natura transitiva del verbo assume anche un'accezione relazionale, presupponendo un nesso tra due o più persone, o diretta ("ha fatto carriera a furia di leccare i superiori") o mediata ("leccare i piedi, le scarpe, gli stivali" e, volgarmente, "il culo a qualcuno"). Un uso traslato del verbo già attestato nell'antica Roma, come dimostrano le auliche locuzioni latine "lambere nates" e "lingere culum".

Espressione, quest'ultima, utilizzata da Catullo all'indirizzo del povero e meschino Vezio, un essere talmente abietto agli occhi del poeta veronese da compendiare in sé i peggior difetti dell'homo lingens: inutilmente prolisso ("verbosus"), privo di morale ("fatuus"), sempre pronto ad esibirsi nella sua performance, leccar natiche e sandali: "Contro te, se mai a qualcuno, si può ben dire, Vezio schifoso, ciò che si dice a pomposi logorroici e agli idioti: con codesta tua lingua, al bisogno, potresti leccar culi e ciabatte di cuoio grezzo. Se vuoi farci stramazzare tutti in un sol colpo, Vezio, apri bocca: quel che desideri l'otterrai immediatamente"».

Momento sublime dell'avvincente prosa dell'autore è l'assurgere a posti di comando a forza di lingua in quel “sedere” che all'epoca dell'Inquisizione - spiega bene altrove - veniva ascritta al Demonio: «Alla fine, il lecchino non mancherà di conseguire il suo scopo scalando l'intera filiera dei benefici. A furia di ingoiare rospi, sorridere a comando, applaudire e leccare scarpe e altro, con modestia, senza fiatare (come il signor Travèt dell'omonima commedia di Vittorio Bersezio), assumerà via via posizioni di sempre maggiore rilievo nell'ambito di un ministero, di un'università, di un movimento politico, di un ordine professionale: da precario a piccolo burocrate, da funzionario a quadro, da dirigente a direttore generale. Però, proprio al raggiungimento del culmine della carriera si consuma il dramma esistenziale del nostro Campione. Egli, infatti, che vive esclusivamente di luce riflessa, come propaggine o appendice di un capo, giunto all'ultimo stadio del suo meschino progetto di vita, farà - suo malgrado - delle scoperte interessanti e malinconiche. Si renderà conto, per esempio, di non avere più a disposizione scarpe o natiche per le quali valga veramente la pena adoperarsi e ciò lo precipiterà in un orizzonte esistenziale di angoscia e frustrazione. Si accorgerà, nel contempo, ormai privo com'è di un capo cui avvassallarsi, di non avere amici, colleghi o sodali con cui condividere il successo; comprenderà di non avere religione, valori, fede politica in cui credere e per i quali combattere. Realizzerà, così, in cuor suo (lì dove non può fingere di aver sudato successi e vittorie), il senso più autentico del suo essere: una pura nullità». Applausi ed ampi consigli da parte mia di ritrovare il libello, che è davvero un riassunto fatto di autori e pensiero attorno al soggetto. Inarrivabile il greco Plutarco, vissuto attorno al primo secolo d.C.: «I pidocchi fuggono via dai moribondi ed abbandonano i cadaveri quando si spegne il sangue che dà loro nutrimento; allo stesso modo, è dato vedere come gli adulatori non s'accostano ad una preda secca e fredda, ma s'attaccano alla gloria e alla potenza e vi prosperano. Poi, appena il vento cambia, si dileguano».

Ma aggiungo il mio amato Étienne de La Boétie, filosofo francese cinquecentesco, così commentato da Cesaro: «La Boétie si fa critico originalissimo delle dinamiche moderne della politicità, esplorando quelle straordinarie (e per certi versi misteriose, e quindi inspiegabili) forme di acquiescenza e di sottomissione che spingono chi è soggetto a un potere non solo a farsi passivamente complice, ma addirittura protagonista della sua oppressione. Il giovane umanista di Sarlat ci invita pertanto a riflettere sul tema - apparentemente ossimorico - della schiavitù desiderata».

Concludo, mirando in alto.

Nella Dovina Commedia adulatori si trovano nella seconda bolgia (Inferno, Canto XVIII).

La pena che Dante riserva loro è una delle più ignobili e degradanti. Essi sono immersi in un fosso pieno di escrementi umani, una metafora brutale della sporcizia morale delle loro parole e azioni in vita. Questo fango e questa "merda" simboleggiano le false e nauseanti lusinghe che pronunciavano per ottenere favori o vantaggi. Dante usa persino questo termine volgare "merda" ed è un'eccezione nel linguaggio solitamente elevato del poema, per sottolineare il suo profondo disprezzo per questo peccato.

Come non condividere?