Nel parlare di fotografia si può volare altissimo e allora vale quel che diceva una grande fotografo: “Fotografare è trattenere il respiro quando tutte le nostre facoltà convergono per captare la realtà fugace: a questo punto l’immagine diventa una grande gioia fisica ed intellettuale”.
Oppure, più semplicemente e più terra a terra, può essere un fil rouge della propria vita, senza ambizioni artistiche. Da qualche parte ho le fotografie in bianco e nero della mia nascita. Figurano in un bel album che immagino dovesse poi essere una sequenza ordinata della mia crescita.
Invece, in un grande cassettone di un mobile a casa dei miei genitori, nel tempo, si è sedimentata una quantità enorme di fotografie le più varie e senza alcun criterio reale.
Penso che la colpa sia di mia mamma, che spesso le guardava in preda alla nostalgia, senza più riporle in modo ordinato. Era credo un modo per ripercorrere gli anni della sua vita, quando la senti declinare verso il capolinea.
Oggi sul proprio telefonino si possono stipare migliaia di foto, che è lo stesso apparecchio ad ordinare e alla bisogna, con semplice ricerchina, riappaiono una persona o un luogo. Anzi, il mio IPhone in automatico ricostruisce in filmati musicati viaggi o situazioni varie con un montaggio vero e proprio.
Questa democratizzazione della fotografia ha diversi aspetti. Il primo è nella memoria. Ricordo di aver ereditato da uno zio una macchina fotografica del passato e dunque mi tocco studiare cose ormai passate come il tempo di esposizione e roba di questo genere. Poi arrivarono gli apparecchi standard con foto certo meno pretenziose.
Lavorai un’estate da un fotografo ad Imperia, il Signor Mangiapan, che mi diede il compito di fare le fototessere. Era un lavoro divertente, specie sui negativi, che potevano essere corretti con una matita in una forma arcaica di Photoshop. Ma questo mio datore di lavoro aveva anche canali privilegiati per offrire a prezzi buoni gli apparecchi fotografici costosi e complicati degli anni Settanta. E così venni addestrato a spiegare le cose ad eventuali acquirenti con cui avessi dovuto avere a che fare.
Così come mi toccava prendere le pellicole che venivano portate a sviluppare e che poi venivano spedite e i clienti tornavano a ruotare le fotografie. Assolutamente spassoso era il collegamento fra chi portava rullini con foto pornografiche fatte i casca e la faccia seria del Tizio al momento del ritiro, forse inconsapevole che le avevamo ampliamento sbirciate. Ma la fotografia restava, anche per i costi, un fenomeno ben delimitato. Ricordo che qualche spesa in più la facevo quando prendevo la Polaroid di papà, che aveva la magica caratteristica per allora di consentire di vedere le foto subito con un procedimento chimico elementare.
Poi, con un’evidente cesura, sono arrivati i telefonini e ricordo un generale scetticismo su questa nuova funzione nella prima fase piuttosto artigianale.
Oggi gli smartphone sono dei mostri di qualità e c’è un inseguimento concorrenziale fra le diverse marche per sviluppi continui.
Ma c’è un però, che rende semiserio il ragionamento. In mille circostanze mi chiedo se questa facilità di scatto anche in situazioni che un tempo sarebbero state impossibili non abbia creato una bulimia fotografica.
Ci sono persone ormai ossessionate e le vedi in circostanze le più varie scattare centinaia di foto e ti domandi che fine faranno. Esiste probabilmente un cimitero delle fotografie inutili, destinate a morire con l’evoluzione degli standard, infilate senza destino in telefonini invecchiati prima di finire chissà dove.