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16 gen 2025

La supercazzola e i suoi avi

di Luciano Caveri

In Italia, ma è una tendenza generalizzata in tutti i Paesi, si assiste ad una progressiva riduzione del vocabolario attivo utilizzato, cioè del numero di parole impiegate nel linguaggio quotidiano e anche nello scritto. Questo fenomeno è stato studiato da linguisti e sociologi, e può essere attribuito a diverse cause.

Esiste, per esempio, un impoverimento lessicale nel solco di una generale semplificazione del linguaggio. La logica di usare frasi brevi e parole semplici rientra certo velocizzazione e talvolta nella banalizzazione della comunicazione, soprattutto nei contesti informali.

Lo si vede anche nell’uso crescente di messaggi scritti (come SMS, chat e social media) che favorisce una comunicazione sintetica e poco articolata.

Se leggere libri, giornali e altri testi complessi arricchisce il vocabolario, è ovvio che lo scemare della lettura - anche nella scuola - ha evidenti conseguenze. Certo è che, con un vocabolario più ristretto, si perde la capacità di esprimere idee e concetti complessi con precisione. Si diventa, per così dire, più poveri.

Questa premessa seria apre la possibilità di sorridere su tre parole da adoperarsi alla bisogna per illustrare certa decadenza.

 Il primo termine è supercazzola (finito nella Treccani) è un neologismo italiano, reso popolare dal film “Amici miei” (1975) diretto da Mario Monicelli. In quel contesto, la supercazzola è un discorso apparentemente complesso, ma in realtà privo di senso logico, spesso usato in modo umoristico o per confondere l’interlocutore.

Esempio del grande Ugo Tognazzi nel dialogo con un vigile urbano.

T: Tarapia tapioco. Prematurata alla supercazzola o scherziamo!

V: Prego?

T: No, mi permetta. No, io; eh scusi noi siamo in quattro. Come se fosse antani anche per lei soltanto in due, oppure in quattro anche scribai con cofandina; come antifurto, per esempio.

V: Ma quale antifurto, mi faccia il piacere! Questi signori qui, stavano suonando loro. Non si intrometta!

M: No, aspetti, mi porga l’indice; ecco lo alzi così… guardi, guardi, guardi; lo vede il dito? Lo vede che stuzzica, che prematura anche. Ma allora io le potrei dire anche per il rispetto per l’autorità che anche soltanto le due cose come vicesindaco, capisce?

V: Vicesindaco? Basta così, mi seguano al commissariato!!!

La supercazzola è costruita con termini inventati, frasi sconnesse o costruzioni grammaticali volutamente bizzarre. Posso dire che nella vita quotidiana c’è chi la usa, certo con effetti comici, ma senza averne coscienza e per propria incapacità verbale.

Esistono in un classico come “I Promessi Sposi” due bellissime parole: il latinorum e l’Azzeccagarbugli.

Il “latinorum” è la lingua che nei Don Abbondio utilizza con Renzo ed è usata e strumentalizzata per imbrogliare. Il latinorum, espressione ormai d’uso comune, tanto da comparire nei vocabolari italiani, è infatti il primo esempio, nel romanzo, di manipolazione del linguaggio a danno degli umili. Don Abbondio usa dei paroloni che il povero filatore di seta non potrà mai comprendere e lo fa per occultare il vero motivo del mancato matrimonio con l’amata Lucia. Sorprendente l’esclamazione di Renzo: «Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?». Infatti…

Esemplare anche “Azzeccagarbugli”, il leguleio al quale si rivolge Renzo, speranzoso di ottenere giustizia. Dice Agnese, madre di Lucia: «Cercate del dottor Azzeccagarbugli, raccontategli… Ma non lo chiamate così, per amor del cielo: è un soprannome. Bisogna dire il signor dottor… Come si chiama, ora? Oh, to’! non lo so il nome vero: lo chiaman tutti a quel modo».

Oggi il termine è usato per indicare una persona che complica intenzionalmente le cose, spesso per tornaconto personale, oppure per descrivere chi cerca di risolvere problemi con metodi confusi o poco chiari.

C’entra con il linguaggio? Penso che tutto si tenga: un linguaggio sempre più povero e locutori sempre meno capaci ad adoperare e a capire le parole creano grandi vantaggi a chi è in grado di approfittarsene.