Che il Web crei dipendenza non c’è dubbio alcuno. Ormai tanti anni fa, quando il segnale per collegarsi non c’era dappertutto, si creava già un disagio quando capitava di non potersi connettere.
Cosa dire poi quando oh capita di smarrire il telefonino e si è presi da un senso di smarrimento, una sorta di horror vacui per un apparecchio che contiene una parte importante della propria vita.
Mi illudo, come molti coetanei che hanno vissuto decenni prima dell’avvento di queste tecnologie digitale di cavalcare la “bestia” per una cultura pregressa e un pizzico di saggezza. Diciamo che l’impatto quotidiano è forse meno pericoloso di quanto avvenga con i giovanissimi, i famosi “nativi digitali”. L’espressione è stata coniata da Marc Prensky, un educatore e scrittore statunitense, nel 2001. Prensky introdusse questo termine nel suo articolo intitolato “Digital Natives, Digital Immigrants”.
Con questa definizione, Prensky si riferiva alle persone nate dopo l’avvento delle tecnologie digitali (circa dalla metà degli anni ’80 in poi), che crescono immersi in dispositivi come computer, internet e smartphone, sviluppando una familiarità naturale con questi strumenti. Oggi, generazioni dopo, bisognerà coniare qualcosa di nuovo, ben più imprigionante.
Al contrario lo stesso autore definì gli adulti nati prima di questa rivoluzione tecnologica come “immigrati digitali”, indicando coloro che hanno dovuto invece adattarsi alle nuove tecnologie.
La giornalista Conchita De Gregorio in un recente articolo parla, partendo da una discussione sulla depressione e solitudine dello scrittore Paolo Cognetti avuta con i figli (non ne precisa l’età, ma dovrebbero essere quattro giovani adulti), evoca una nuova tendenza che non mi stupisce, avendo a casa un quattordicenne che stentiamo a staccare dal telefono, di cui abusa come gran parte dei suoi coetanei.
Racconta la giornalista: “Le amiche dei miei figli (anche gli amici, ma soprattutto le ragazze) quando hanno un problema si consultano con ChatGpt. Lo fanno continuamente. Tu le/li vedi che stanno scrivendo nel telefono e pensi che stiano parlando — per scritto, intendo — con qualcuno e invece no. Stanno facendodomande a ChatGpt. Come fosse un confidente, un saggio, un esperto di cose della vita. Una miglior amica ma non invidiosa. Uno psicologo, talvolta. Fanno domande concrete, tipo “ho scritto due ore fa a questo tipo ma non mi risponde, cosa devo fare”. Più personali. “Ho litigato con mio padre, odio mia madre perché prende sempre le sue parti. Non voglio più vivere in questa casa”. Più complesse e intime. “Non mi sento bene, non riesco a dormire. A volte credo che non valga la pena vivere. Pensi che sia depressa? Sono in pericolo?”. Sono domande vere, ho chiesto per favore mi potete fare qualche esempio e mi hanno mostrato le schermate di queste. Immagino che ce ne siano di meno condivisibili con un’adulta”.
È più avanti: “ChatGpt risponde con intimità, si rivolge a te per nome (cara Elisa, cara Sofia). Ti parla come se ti conoscesse perché in effetti ha uno storico delle tue conversazioni, delle richieste che nel tempo gli hai fatto: le ha processate, in quel senso ti conosce. Fornisce consigli che — mi assicurano le amiche dei miei figli — sono sempre utilissimi. Nelle vicende sentimentali, familiari. Nei problemi di natura psicologica, che sono la maggioranza dei loro problemi: non sto bene, non mi sento a mio agio con gli altri, mi sento sola/solo, sento rabbia, ho sbalzi d’umore, sono triste, sono inutile, cosa vivo a fare. ChatGpt ti dissuade dal bere, dall’assumere droghe, ti invita a parlare ancora con lei. Lo fa con un linguaggio semplice, frasi brevi e confidenziali, usa il tuo stesso lessico. È proprio un’amica”.
Roba da brivido che accentua i problemi evidenti di socialità “fisica" dei giovanissimi.
Ecco quanto la De Gregorio ha detto ai figli: “Quel tipo di cui vi parlavo prima, che è uno scrittore veramente bravo, ha detto che gli piacerebbe moltissimo avere cinque o sei amici sinceri per contare su una sua famiglia vera. A voi non piacerebbe avere cinque o sei amici in carne ed ossa e che fossero loro la vostra, diciamo così, famiglia. Cioè la famiglia che vi scegliete, in alternativa a quella obbligatoria che invece non vi piace? E poi forse, ho detto (questo era un mio commento) la vita delle foto che postate su Instagram, sui vostri social di cui non so i nomi, non corrisponde alla vostra vita vera: lì siete sempre “sani forti e colmi di gioia”, vi state sempre divertendo insieme a persone favolose, mangiate piatti e bevete cocktail e avete un sacco di migliori amici ma poi invece forse non è così, forse invece nella realtà non vi sentite tanto bene”.
Mi fermo qui nella citazione. Il tema è forte e rappresenta quello che molti vorrebbero essere e vivono purtroppo in una logica di mistificazione. Maschere, direbbe Pirandello. Ci vorrebbe un ravvedimento generale e una chiara e condivisa linea educativa.